Quando si parla di errori medici, la domanda che tutti si pongono è: di chi è davvero la colpa? E soprattutto: chi risponde dei danni subiti dal paziente? Con la sentenza n. 34516/2023, la Corte di Cassazione ha fatto chiarezza su alcuni punti chiave della responsabilità in ambito sanitario, destinati ad avere un impatto concreto sul modo in cui strutture e medici gestiscono il loro rapporto professionale, soprattutto nei casi più complessi.
Il caso che ha portato alla pronuncia riguarda un intervento chirurgico per endometriosi profonda al IV stadio, risultato dannoso per la paziente. Quest’ultima ha chiamato in giudizio medico, Casa di Cura e ASL, ritenendo ognuno responsabile a vario titolo. Il medico per non aver operato correttamente, la Casa di Cura per un’assistenza logistica e infermieristica inadeguata, e l’ASL per aver affidato l’intervento a terzi senza vigilare sull’esecuzione. Di contro, ciascuno ha tentato di declinare le proprie responsabilità, invocando linee guida, difficoltà tecniche, ruoli marginali o addirittura estraneità al caso.
La Cassazione ha stabilito che, ai sensi della Legge Gelli e dell’art. 1228 c.c., la struttura sanitaria è responsabile anche quando affida la prestazione a terzi, compresi medici non dipendenti o altre strutture. Questo significa che il paziente può rivolgersi direttamente alla struttura per ottenere il risarcimento, indipendentemente dal tipo di rapporto contrattuale tra questa e il medico incaricato. La struttura, in altre parole, non può “scaricare” la responsabilità solo perché si è avvalsa di un professionista esterno.
Ma c’è di più. Se la struttura ha pagato per intero il danno, può rivalersi sul medico responsabile? Solo in parte, a meno che non dimostri che il comportamento del sanitario sia stato eccezionalmente grave, imprevedibile e del tutto fuori dal piano condiviso di cura. In mancanza di questa prova, la legge presume una responsabilità al 50% tra medico e struttura, anche se il danno è stato causato esclusivamente dal medico. Una soglia alta da superare per la struttura, che spesso si ritroverà a dover dividere l’onere economico, anche senza colpa diretta.
Infine, la sentenza tocca un altro tema delicato: la responsabilità in caso di interventi particolarmente complessi, i cosiddetti “problemi tecnici di speciale difficoltà”. In base all’art. 2236 c.c., medico e struttura non rispondono dei danni se non in caso di dolo o colpa grave. Tuttavia, questa protezione non si applica quando l’errore deriva da imprudenza o negligenza: l’unico vero scudo è l’imperizia, ovvero la mancanza di competenza tecnica. È imprudente, ad esempio, chi opera in modo sconsiderato o eccessivo; è negligente chi agisce con disattenzione o superficialità; è imperito chi non ha l’esperienza o le competenze necessarie. Solo in quest’ultimo caso, se non c’è colpa grave, si può evitare la responsabilità.
La pronuncia della Cassazione, quindi, spinge verso una maggiore condivisione organizzativa tra medico e struttura. Serve un piano di cura condiviso, chiaro e documentato, in modo che ciascuno sappia quali sono i limiti del proprio intervento e quali le responsabilità. Un approccio che non solo tutela i pazienti, ma aiuta anche gli operatori a evitare contenziosi, chiarendo ruoli e confini. In un contesto sanitario sempre più articolato, non basta più “fare bene”: bisogna anche “organizzare bene”.